Little Big Man a i 'Mercoledì dei Classici'

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Tornano gli appuntamenti con "mercoledì dei classici" di Cinema Mon Amour. Il ciclo di quest'anno vuole riflettere sul tema ‘Intorno al '68: venti di ribellione'. Il secondo appuntamento è il 24 ottobre alle 14, con Little Big Man (Il piccolo grande uomo), il film america del 1970 per la regia di Arthur Penn. La pellicola sarà introdotta da Diego del Pozzo, docente dell'Accademia delle Belle Arti e giornalista de Il Mattino.

L'ultracentenario Jack Crabb, unico superstite della battaglia di Little Big Horn, racconta la storia della sua vita a un giornalista desideroso di acquisire nuovi elementi sugli scontri tra bianchi e pellirosse. Superstite di un attacco di predoni, Jack viene salvato, ancora bambino, da un indiano Cheyenne. Divenuto adulto, prova a vivere nella società dei bianchi e finisce arruolato tra i soldati di Custer, dal quale si allontana in seguito ad una inutile strage di donne e di bambini indiani compiuta dai soldati. Infine, arruolatosi nuovamente nell'esercito, assiste al massacro di Little Big Horn.

Il film è tratto dal romanzo di Thomas Berger e sceneggiato da Calder Willingham. Western anomalo e, in un certo senso, unico, ha qualcosa del racconto filosofico francese del Settecento (non lontano dal Candide di Voltaire) e del romanzo picaresco spagnolo. La smitizzazione del West e dei bianchi è radicale nella sua continua (e un po' prolissa) mistura tragicomica; la simpatia per i pellerossa, il rispetto per la loro cultura, la denuncia del loro genocidio non scadono quasi mai nel (melo)dramma didattico. Hoffman allo zenith del suo fregolismo istrionico (cfr. Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli, Milano, 2008).

All'inizio degli anni Settanta la New Hollywood si era imposta al grande pubblico, stravolgendo i dettami e le regole del cinema classico. Un genere di rilievo come il western non poté sottrarsi all'onda di questa corrente rivoluzionaria. Come scrive John Sturges: «Un western deve assomigliare agli altri western, è un divertimento formale, ci sono il bene e il male, un inseguimento, un duello, è del tutto inutile voler fare dei western diversi». Continua il regista statunitense: «Se volete fare un nuovo western dovete cambiare solo i cavalli, lasciare in pratica le cose al loro posto». Possiamo quindi definire Il piccolo grande uomo di Arthur Penn un "antiwestern", perché è un western controcorrente, e a suo modo rivoluzionario. Anche se del western classico riprende l'ambientazione storica, riproponendone le caratteristiche come scheletro di una mitologia letteraria, il film di Arthur Penn ne dissacra gli stilemi. Una rilettura del Far West inedita e atipica che ribalta la tradizione e porta lo spettatore ad abbracciare la prospettiva dei nativi. Dalla pellicola emerge una rappresentazione della crisi identitaria del protagonista diviso tra due culture profondamente diverse: il piccolo grande uomo Jack Crabb è allevato dai Cheyenne per poi vivere in età adulta nel "mondo civile", confrontandosi con la vita e la morte, con lo spazio e il tempo, il terrore, la guerra, il dominio e la sopraffazione.

Come ci ricorda La Polla, la vera violenza per il protagonista Jack Crabb «impeciato e impiumato da rozzi frontiersmen o concupito da tre indiane sotto una tenda-Harem e destinato a sopravvivere alle carneficine delle guerre contro i pellerossa», non è tanto quella storica della furia militare di un folle Custer, ma quella di ritrovarsi in un mondo che non riesce a classificare, e di sentirsi continuamente spiazzato quando cerca di dare un senso agli avvenimenti (cfr. F. La Polla, Il nuovo cinema americano, Marsilio Editore, Venezia, 1978). È l'equilibrio perfetto tra commedia e dramma, ironia e tragedia, ciò di cui il regista Arthur Penn si serve per provocare e smascherare la falsa morale e la mancanza di etica del popolo americano, che voleva ergersi ad emblema – negli anni Settanta più che mai – della democrazia occidentale.

A proposito di Arthur Penn, Goffredo Fofi ha scritto: «I suoi film hanno saputo così efficacemente spiegarci il suo paese, e in futuro serviranno a ripercorrerne i dilemmi essenziali». E Ingmar Bergman ha dichiarato: «Dopotutto, Arthur Penn è uno dei migliori registi del mondo». 

Joao Paulo D'Avino

Corso di laurea magistrale in Discipline della musica e dello spettacolo. Storia e teoria

L'appuntamento si inserisce nel ‘cartellone' F2 Cultura 2018/2019, il programma d'iniziative culturali dell'Ateneo, che si rivolge ai cittadini, alle scuole e alla comunità tutta.

 

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