La funzione cerebrale e l'autismo: nuovi sviluppi

L'autismo è considerato dalla comunità scientifica internazionale un disturbo che interessa la funzione cerebrale; la persona affetta da tale patologia mostra una marcata diminuzione dell'integrazione sociale e della comunicazione.
Attualmente risultano ancora sconosciute le cause di tale manifestazione ma occorre precisare, che data la varietà di sintomatologie e la complessità nel fornirne una definizione clinica coerente e unitaria sul'autismo, si é soliti parlare, di "disturbi dello Spettro Autistico".
Prima del ventesimo secolo non esisteva il concetto clinico di autismo; tra i precursori della ricerca di merito nel XIX secolo, vi fu anche John Langdon Down (che nel 1862 scoprì la sindrome che porta il suo nome), e che aveva approfondito alcune manifestazioni cliniche che oggi verrebbero classificate come autismo.
Anni di studi hanno associato il disturbo che impedisce di relazionarsi con l'esterno alle cause più svariate, fino a dire che la colpa è dei genitori, di quella "madre frigorifero" che il figlio l'ha amato poco o male. Oggi la teoria psicologica è stata quasi del tutto accantonata e la scienza concorda sul fatto che l'autismo sia una malattia neurologica. Ma i dubbi e le divergenze sulle strategie di intervento sono ancora molti.
Una ricerca italiana appena pubblicata sul "Journal of Autism and Developmental Disorders" mostra che sarà possibile misurare gli effetti delle terapie riabilitative esaminando le connessioni della sostanza bianca del cervello e analizzando di volta in volta quale terapia sia più efficace.
Alla scoperta si è arrivati attraverso la risonanza magnetica con una tecnica d'avanguardia, la DTI (Diffusion Tensor Imaging), che permette di rendere visibile le connessioni tra le aree funzionali cerebrali e di esaminare le variazioni che si verificano a livello di fibre neuronali nel corso di ogni singola terapia.
La ricerca di Francesca Benassi del Centro studi in Neuroriabilitazione CNAPP e Leonardo Emberti Gialloreti dell'Università di Roma Tor Vergata è partita infatti dal presupposto, già dimostrato, che nell'autismo ad essere danneggiate non sono tanto le singole aree del cervello, bensì i legami tra queste. Ed è necessario osservare queste alterazioni per correggere il disturbo, lentamente, con terapie che possono durare anche tutta la vita.
Più in generale, le persone con autismo tendono a strutturare comportamenti stereotipati. Per questo, per molti anni si sono utilizzati metodi educativi che cercavano di fare adattare la persona all'ambiente attraverso la ripetizione automatizzata delle loro azioni.
La ricerca italiana adotta invece la strategia opposta, intervenendo sui legami cerebrali alterati e cercando di far fare al paziente ciò che gli riesce più difficile, cioè allenarsi a compiere azioni volontarie, intenzionali e non automatiche. Questa è la sfida e la speranza futura, affinché si possa ottenere per ciascun paziente autistico una specifica terapia. (C.Crispino)
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