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Lettera di un anziano medico ai giovani colleghi

La lettera, dedicata ai medici giovani, scritta circa un anno fa dal professore Enrico Di Salvo, recentemente scomparso, è stata letta dal professore Michele Santangelo all'assemblea accorsa per l'ultimo saluto al noto chirurgo e docente dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.
‘Uomo di elevatissimo spessore professionale e morale, ha segnato la storia degli ultimi decenni della nostra Scuola di Medicina aprendo sempre nuove ed entusiasmanti vie nel mondo della chirurgia e della trapiantologia - ha ricordato Santangelo, Professore di chirurgia generale della Federico II -. Nella sua vita professionale il prof. Di Salvo si è impegnato con tutto sé stesso sia nella didattica che nel settore della ricerca, anche in qualità di Direttore Scientifico dell'IRCCS Pascale, e dell'organizzazione sanitaria, anche in qualità di Direttore Generale dell'ASL di Benevento, oltre che Direttore di Dipartimento e di UOC. Negli ultimi 20 anni ha inoltre profuso i suoi sforzi come medico ed organizzatore anche nella fondazione e la direzione dell'Associazione Konou Konou Africa Onlus con cui ha realizzato oltre 30 missioni umanitarie in Africa, concretizzatesi nell'operare migliaia di persone ed anche nel sostenere attivamente le popolazioni più bisognose nel loro sviluppo socio-economico. Per queste sue doti umane e per la sua predisposizione ad aiutare il prossimo, recentemente fu chiamato a tenere una lettura ai giovani laureati sul ruolo del medico nella società moderna. È una sorta di testamento professionale, che rispecchia in pieno la sua indole e la sua essenza, nel quale moltissimi suoi allievi si sono ritrovati'.
LETTERA DI UN ANZIANO MEDICO AI GIOVANI COLLEGHI
Carissimi giovani colleghi,
quando calano le ombre è necessario andare a cercare la luce dell'alba per darsi pace e ritrovare la gioia. È per questo, penso, che ho accettato l'invito di un caro amico a rubare un po' del vostro tempo scrivendo questa lettera all'interno della quale vedo un rischio gravissimo, quello della genericità, del cedimento alla autoreferenzialità ed al gusto di raccontarsi scrivendo di cose vecchie e inutili, rese opache dal rammarico che tutto si allontana e che la stessa identità di chi vi scrive diventa sempre più labile, indistinta, forse inutile.
E proprio per questo che mi sono detto: e se provassi a distaccarmi dal mio ruolo e cercassi di colmare con le pietre della continuità e della amicizia il vallo profondo che mi separa e differenzia da voi, e che fa di me il figlio di un tempo remoto mentre voi siete il nuovo, il sogno del domani, i guardiani di quella speranza che i vecchi perdono ogni giorno? Se smettessi di giudicarvi, di vedere in voi quello che avremmo voluto essere e non sapemmo essere, se smettessi di vedere in voi quelli che sono venuti o verranno a prendere il mio posto, quelli che ci dimostreranno che le tecniche della nostra medicina sono oramai stantie, e che ci spiegheranno che abbiamo lavorato con gioia in ospedali oggi assolutamente inadeguati e che quelli futuribili che sentite vostri sono quelli che oggi servono, perché danno i migliori risultati?
D'accordo ci provo e smetto di fare questi pensieri. Adesso però anche voi avvicinatevi al mio sentire e venite con me a vedere nelle camere dei vostri reparti. Cercate negli angoli, tra i letti di degenza, dietro le barelle, ma soprattutto nelle maglie dei lamenti, delle richieste di spiegazione, delle carezze che forse sono diventate poche e imbarazzate (quasi che togliessero sacralità al vostro incedere nei corridoi e nelle corsie), cercate lo sguardo disperato di un ammalato intubato che cerca di dirvi con gli occhi "voglio salutare le persone che ho amato, dite a mia moglie che la amerò anche dopo, salutate per me mia madre", oppure anche semplicemente "vorrei che questo infermiere che ogni tanto va a fumare perché non regge, sapesse che gli sono grato, perché si è occupato di me, e vada come vada".
Vedete, il giorno della mia laurea è il 20 luglio del '72. Più di cinquant'anni. Avevo ventitré anni, avevo dovuto fare in fretta, mio padre era morto giovane. Fu l'anno in cui si aprì il nuovo policlinico, che irrompeva come l'astronave di un film magico, oscurando i vecchi nobili Ospedali della città, il Cardarelli, il Pellegrini, gli Incurabili, altri dove pure nelle grandi camerate in tanti avevano trovato assistenza e tenerezza e alla fine la vita o la morte, come era scritto.
La medicina cambiava. Si andava facendo strada una nuova maniera di scoprire le malattie e un po' alla volta quella meravigliosa immagine del medico santo Moscati che si chinava ed appoggiava il proprio orecchio sulla schiena sudata di un morente andava in dissolvenza. Incominciammo col leggere i referti delle lastre radiografiche, gli esami di laboratorio, sempre più numerosi, più sofisticati, poi arrivò la TAC, e a seguire la risonanza, la PET e tanto ancora: tutto questo consentiva diagnosi più rapide, più sicure, permetteva di accompagnare i trattamenti valutando la risposta del paziente. Ma un giorno in reparto un primario vecchia maniera, stimato come un nobile elemento giurassico ma tollerato, chiese a bruciapelo ad un numeroso gruppo di giovani medici (dei veri leoni) che discutevano sui referti delle indagini, chi sapesse se il paziente di cui avevano parlato fin lì avesse i baffi.
Nessuno rispose. Ma che vuole questo? Ma che importanza può avere se ha i baffi? E perché ci distrae mentre stiamo sviluppando un ragionamento "clinico- scientifico" che poggia su di un basamento di biologia molecolare, che mette in campo path complicati che hanno dato vita a nuove proteine, a nuove tecniche di indagine e che in analisi finale portano il soffio del vento fortissimo della Intelligenza Artificiale anche nel mondo della malattia, della diagnosi e della cura???
Ecco è questo quello che è accaduto e accade anche oggi!
Avevo da tempo, negli ultimi anni della mia docenza, la sensazione non solo che il paziente fosse sempre meno un essere ammalato terribilmente bisognoso di cure e di affetto e stesse transitando verso una nuova identità: un faldone, o meglio ancora una cartella sul desktop del pc di reparto, ma anche che sia infinitamente prevalente il tempo che i medici delle giovani generazioni (cioè VOI) spendono con le "carte" dell'ammalato piuttosto che con la materia vivente alla quale quei dati appartengono.
E quanto dura la presenza nella camera di degenza dei giovani specializzandi, che con il carosello di apparizioni rapidissime di volti sempre diversi, creano nel sofferente una confusione mentale che si materializza nella buffa domanda: mi scusi dottore, ma lei è lo stesso di ieri?
Eppure quanti progressi e quanta strada!!!! Operazioni molto più veloci, gestite con i joystick da una postazione magari al capo opposto della sala operatoria, chirurghi che entrano ed escono immacolati, il sangue resta dalla parte del malato, lontano da loro…
E ancora quanto tempo si parla con i parenti? Intendo in una conversazione che si infili nella rete dei complessi meccanismi familiari, che affronti INSIEME il tema della sofferenza e della morte? Quanto tempo libero dalla guardinga guardia stretta che ha un occhio alle cause di malpractice, sempre dietro l'angolo, sempre in agguato, il più delle volte perché la disumanizzazione del rapporto medico-paziente e medico-famiglia apre la porta alle incomprensioni e alle speculazioni?
E quanto brutto è un medico che guarda di sottecchi (ma neppure tanto) il suo costoso orologio mentre pensa: uffa, quanto tempo mi fanno perdere, mi aspettano in casa di cura per operare, mi faranno litigare con l'anestesista! Perché questo medico vuole scappare in clinica privata? Perché quella creatura umana che deve curare nel sistema pubblico lo interessa meno di quella che lo paga?
Un sistema promiscuo che intreccia un lavoro umano di cura con la logica del profitto è un sistema aberrante, eticamente riprovevole. Lo capiranno quelli di voi che avranno la voglia e la fortuna di fare un volontariato nel mondo veramente povero: una indescrivibile gioia. Sarete sempre una sparuta minoranza ma sarete gli unici a potervi fregiare degnamente del nome di medico.
Riappropriatevi della bellezza di questo compito. La mia generazione ha fatto anche cose buone, anche del bene, ma non vi ha lasciato granché: tanta tecnica e poco cuore. Ma VOI potete ancora farcela: un grande cammino in salita, ma ce la farete.
Redazione
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