Dipartimento di Ingegneria, piazzale Tecchio e via Claudio
Dipartimento di Ingegneria, piazzale Tecchio e via Claudio
Di Giovanni Menna
La sede del Dipartimento di Ingegneria di piazzale Tecchio costituisce la più significativa realizzazione a Napoli nel secondo dopoguerra di Luigi Cosenza, il più importante progettista napoletano del Novecento, e una delle più rilevanti opere pubbliche in assoluto costruite in città dagli anni Cinquanta in avanti. L’opera giunge a valle di un iter quanto mai tormentato, nel quale potrebbe persino tracciarsi la storia del Moderno a Napoli, poiché il dibattito sulla nuova sede per gli studi di Ingegneria – da sempre ospitati nel cuore del centro storico, a Santa Maria di Donnaromita – aveva prodotto una serie di proposte rimaste sulla carta a partire dall’Ottocento, fino al cuore del XX secolo. Dal progetto di Raffaele Folinea a Capodimonte (1890), al “Politecnico Mussolini” di Gastone De Martino per la Fondazione Politecnica per il Mezzogiorno d’Italia (1935), passando per la proposta di Girolamo Ippolito (1941), che fissa definitivamente la localizzazione a Fuorigrotta fino al piano Cosenza-De Martino (1946-1947), quando entra in scena Cosenza che, chiamato da Adriano Galli a insegnare Architettura, sarà da questo momento in avanti il solo protagonista. Cosenza elabora così l’interessante proposta (1948-1950) di un complesso “a padiglioni” di segno razionalista, ma immersi in una rete di percorsi verdi, che rivela la sensibilità per la relazione artificio-natura, che lo vede in questi anni vicino all’Associazione per l’architettura organica (Apao) di Bruno Zevi – il quale pubblica il progetto su «Metron» (1950) – e che si esprimerà al più alto livello nella fabbrica Olivetti a Pozzuoli. La sopraggiunta indisponibilità dei suoli (assegnati al nuovo stadio municipale) imporrà continue revisioni al progetto e saranno ben undici le versioni inutilmente approntate tra il 1950 e il 1951. Lo stallo – aggravatosi con l’erosione di ulteriori superfici per i parcheggi dello stadio – si sbloccherà solo con la legge speciale n. 297 del 1953 (che libera fondi per l’edilizia universitaria a Napoli), grazie alla disponibilità di altri suoli a piazzale Tecchio, permetteranno a Cosenza di giungere infine alla versione definitiva, approvata dal Genio Civile nel 1955, e all’apertura del cantiere nel gennaio 1956. Dopo rallentamenti e sospensioni fino alla rescissione del contratto con l’impresa vincitrice dell’appalto (con un ribasso fortissimo) e a una nuova gara (1961), i lavori saranno ripresi e infine portati a termine con l’esecuzione delle ultime opere d’arte, avviate dal 1963. L’inaugurazione avverrà l’11 marzo 1965. A differenza di un impianto a padiglioni, Cosenza sceglie per la soluzione realizzata il modello del palazzo urbano a chiostro quadro, con il grande patio interno chiuso da tre volumi più bassi e dal corpo svettante in testa alla meravigliosa sala ipostila di accoglienza, che mette in rapporto lo spazio aperto della città con quello del giardino, riallacciandosi naturalmente alla tradizione italiana, ma anche – per sua esplicita ammissione – ai grandi edifici comunitari tardomedioevali, come il chiostro dell’Università di Cracovia (XIV secolo). Del resto, sul piano compositivo, il tema dominante risiede proprio nella coraggiosa dialettica interna che l’edificio sembra avere con se stesso, con la reiterata contestazione del principio che di volta in volta viene assunto: la costante ricerca di un’apertura, che neutralizza gli effetti di una introversione, che fa raccogliere l’opera su se stessa; l’inflettersi o inclinarsi delle superfici (nella torre rastremata in altezza, nel fronte, o ancora nel corpo a fuso tronco sul lato opposto) con una finezza tutta “greca” che deforma, incrina e così anima l’apparente categorica ortogonalità dell’impianto; l’asimmetria, gli scarti o il disassamento rispetto a un impianto incardinato su una longitudinalità assiale; la ricerca di fluidità e continuità in una rigorosa organizzazione gerarchica degli spazi (didattica, ricerca, amministrazione, etc.) dimensionati e conformati in relazione ad altrettanto rigorose istanze funzionali e distributive; la permeabilità di pilotis e portici che stemperano la compattezza della torre e dei blocchi; l’accentuata orizzontalità di tutti i corpi di fabbrica a bilanciare lo slancio della torre; e, ancora, la ricchezza semantica e cromatica di opere d’arte e finiture opposte alla iterazione del modulo che organizza la facciata della torre. Quest’opera conclusa in sé, che pare cioè trovare al proprio interno ragioni e forme del proprio costruirsi in oggetto, trae tuttavia il suo significato forse più profondo dal suo costruire relazioni significative con ciò che è all’esterno. Con lo spazio urbano innanzitutto, e con gli elementi principali – la Mostra d’Oltremare, lo stadio San Paolo, le case popolari, la piazza, il viale alberato, l’asse domiziano – del frammento di città a cui appartiene, e del quale anzi contribuisce a costruirne un’identità di città assolutamente moderna. E poi con la natura: quella del grande giardino, quella del panorama che si gode dalla torre, ma anche quella che si infiltra nel costruito intorno all’edificio, nella sapiente calcolata disposizione delle alberature nella piazza che sono parte del progetto. La dialettica costruito/natura ispira anche la progettazione del secondo importante polo per Ingegneria, realizzato dal 1972 in un ampio lotto tra via Terracina, via Marconi e via Claudio. Realizzata in tempi differenti e oggetto nel tempo di integrazioni e modifiche, questa sede recupera la primigenia tipologia a padiglioni con una serie di articolati corpi a “T” distanziati da percorsi e alberature che, se da un lato rispondono adeguatamente a un preciso programma funzionale, dall’altro naturalmente non possono esibire la compattezza e la forza di immagine della vicina sede di piazzale Tecchio. Si tratta di edifici che, tuttavia, vanno considerati insieme all’altra sede, come parte di un più vasto, articolato, complesso e plurale organismo: un vero “politecnico”, che esigeva una pluralità polifonica di temi e scale, da quella urbana a quella artistica. Questa esperienza è stata così una straordinaria opera di sintesi, anche dal punto di vista dei molteplici saperi che Cosenza ha saputo fondere: dalla scienza e tecnica delle costruzioni all’urbanistica (Michele Pagano, Marcello Picone, Luigi Tocchetti, Corrado Beguinot e altri), dal disegno del verde, affidato come a Pozzuoli al magistero di Piero Porcinai, al programma decorativo, che vede artisti di alto profilo della scena napoletana, come Domenico Spinosa e soprattutto Paolo Ricci. Il pittore e critico è un’esemplare figura di artista impegnato: un comunista come Cosenza e come gli operai di Bagnoli, che realizzarono la scultura di acciaio di Eugenio Carmi, posta a evocare quel reciproco «vivo e libero scambio culturale» fra scuola e società per un’università autenticamente popolare, in grado cioè, da un lato, di offrire «a ogni singolo che lo desideri o ne sia capace la possibilità di prendere conoscenza delle forme più elevate del sapere, dei problemi culturali e scientifici del proprio tempo», e dall’altro di ricevere a sua volta dalla società «il grande e insostituibile incentivo alla conoscenza che è offerto dall’indicazione dei dati, delle tendenze, dei problemi risultanti dall’esperienza storica e sociale». (Cosenza 1965, 6).
Dal volume "Passeggiando per la Federico II" (seconda edizione aggiornata) a cura di Alessandro Castagnaro - fotografie di Roberto Fellicò - FedOAPress