Chiesa dei Santi Demetrio e Bonifacio
Chiesa dei Santi Demetrio e Bonifacio
di Giovanni Menna
L’aula magna del Dipartimento di Architettura dell’Ateneo federiciano è oggi ospitata nella chiesa dei Santi Demetrio e Bonifacio, che i padri Somaschi eressero nell’attuale piazzetta Teodoro Monticelli, uno slargo creato solo nella prima metà del Settecento tra via dei Banchi Nuovi e via Donnalbina.
La chiesa venne titolata ai due santi per distinguerla da una dedicata al solo san Demetrio, precedentemente edificata nell’ambito di un vasto impianto di origine altomedievale, un monastero basiliano e poi benedettino dalla complessa stratificazione, ricostruita da Teresa Colletta, dipanando in modo puntuale e convincente un filo lungo tredici secoli.
La costruzione della chiesa prese avvio a fine Seicento con un incarico affidato prima al regio ingegnere Antonio Guidetti (1696), che presentò un modello che venne rifiutato; poi a Carlo Fontana (1698), che propose un tempio circolare con cupola e facciata corredata da due campanili, che non ebbe migliore sorte, e, infine, a Giovan Battista Nauclerio, autore del progetto sulla base del quale fu edificata tra il 1706 e il 1725 la chiesa che oggi vediamo.
Una fabbrica che, con ogni probabilità, non aveva un ingresso diretto dall’esterno, ma dalla sacrestia, collegata attraverso una scala triangolare allungata alla casa e al Collegio dei Somaschi ospitate all’interno del contiguo Palazzo Penne.
La chiesa fu pertanto conformata come un invaso architettonico “senza facciata” e, del resto, sono le qualità spaziali dell’interno a farne una delle più significative realizzazioni del primo quarto del Settecento napoletano, a dispetto delle sue ridotte dimensioni, in virtù di una sapiente articolazione delle componenti tettoniche e da una piena quanto originalissima padronanza degli ordini.
L’impianto planimetrico è impostato su una pianta centrale a croce greca quasi quadrilobata, poiché il fondo dei bracci è conformato a esedre schiacciate semiellittiche, a eccezione di quello opposto all’ingresso che si conclude con un’abside più profonda, quasi semicircolare, per dare più respiro al presbiterio, portando la lunghezza massima sull’asse ingresso-altare a ventotto metri.
La chiarezza e l’unità che connotano l’opera riscatta la povertà di una facciata realizzata con pochi mezzi solo successivamente e preceduta da un piccolo sagrato sopraelevato e recintato, che fa da filtro tra la piazzetta e la chiesa.
L’interno è luminosissimo.
La necessità di prendere luce elevandosi rispetto ai fabbricati circostanti, estremamente vicini, ha determinato Nauclerio a impostare a un’altezza considerevole rispetto alle dimensioni in pianta (28 m) una bella cupola forata da otto finestroni e sostenuta da possenti pilastri.
È poi all’ordine gigante che l’architetto affida il compito di mettere in relazione non solo la cupola con il vuoto sottostante, ma anche le ali laterali con lo spazio centrale, poiché le grandi lesene che inserisce sul fondo delle prime sono orientate verso il centro, ribadendo la centralità dell’impianto.
La ribattuta delle lesene e il suo riverberarsi sulla cornice aggettante della trabeazione – adottata da Nauclerio anche nei risvolti laterali della facciata di San Giovanni Battista delle Monache – che introduce una delicata vibrazione chiaroscurale in corrispondenza del taglio a 45 gradi dei pilastri, vale da sola a rendere superfluo ogni ulteriore accento plastico, ed è tra gli esempi più belli riscontrabili a Napoli sul tema dell’ordine nel passaggio tra Sei e Settecento.
Dal volume "Passeggiando per la Federico II" (seconda edizione aggiornata) a cura di Alessandro Castagnaro - fotografie di Roberto Fellicò - FedOAPress