Palazzo Gravina
Palazzo Gravina
di Fabio Mangone
Palazzo Gravina a Monteoliveto, storica sede della Scuola (poi Facoltà e infine Dipartimento) di Architettura, nella sua attuale configurazione è l’esito di una storia ben più complessa e travagliata di quanto non faccia presagire il suo omogeneo aspetto di compatto palazzo rinascimentale.
La costruzione dell’emblematica residenza degli Orsini fu avviata su un lotto degli ampi terreni e giardini che nel 1513 don Ferdinando, duca di Gravina, ebbe censuati dal monastero di Santa Chiara, in prossimità delle vecchie mura aragonesi, tra l’alto recinto del convento e la strada dell’Incoronata, successivamente divenuta di Monteoliveto.
Immediatamente fu avviata la costruzione del palazzo, secondo un severo disegno rinascimentale, che in analogia con altre illustri residenze napoletane prevedeva un rivestimento a bugne di una certa consistenza; tuttavia, il cantiere ebbe una lunga stasi a causa delle turbolenze politiche e militari che seguirono l’assedio del 1528, nell’ambito della battaglia della Lega di Cognac, e il sequestro dei beni di Ferdinando, accusato di fellonia, e poi reintegrato nei possedimenti, dietro il pagamento di una cospicua multa.
Una volta ripresi, i lavori erano ancora in via di completamento nel 1549, anno in cui il duca Ferdinando morì.
Non è del tutto appianata la questione della attribuzione: probabilmente, nella lunga gestazione della fabbrica possono essersi affiancate e succedute figure differenti.
Benedetto Di Falco nel 1539, mentre i lavori sono ancora in corso, cita come autore “Gabriel D’Angelo napolitano”, mentre un documento notarile del 1549 attestò l’esistenza di disegni di falegnameria fatti dall’architetto Giovanni Francesco Di Palma detto il Mormando.
In ogni caso, dopo la morte del fondatore non risulta un grande impegno nella prosecuzione del palazzo (peraltro vincolato al maggiorascato) da parte degli eredi Orsini, che mano a mano subcensuano i terreni adiacenti acquisiti da Santa Chiara a terzi, rendendo sicuramente più fitto il contesto costruito e meno ampie le visuali prospettiche sull’edificio, più facilmente percepibile per il disegno della facciata che per la complessiva volumetria.
Di fatto, come lamentano tanto Leandro Alberti nel 1577, quanto Giulio Cesare Capaccio nel 1635, il palazzo appare incompiuto.
Tale doveva sembrare innanzitutto per la bella facciata, ideale prosecuzione del concetto espresso da Bramante nella cosiddetta Casa di Raffaello, sprovvista di portale, e poi perché dopo il bell’atrio ipostilo, il cortile, aperto idealmente verso i giardini, non era completamente definito dal porticato ad archi, interamente sulla controfacciata, ma parzialmente e asimmetricamente sui due fronti laterali.
Una successiva fase di migliorie corrisponde all’epoca di Domenico Orsini, duca dal 1734 e cardinale dal 1743.
Dagli anni Sessanta del Settecento il palazzo acquisì il bel portale dorico, dotato di una certa sua autonomia figurativa e progettato da Mario Gioffredo, che nella colonna scanalata istituì un ideale contatto con quei templi di Paestum alla cui riscoperta aveva contribuito.
Per le decorazioni interne vennero coinvolti i più importanti pittori dell’epoca, tra cui Giuseppe Bonito, Francesco De Mura, Fedele Fischetti, mentre vengono interpellati, anche solo per consulti, i più importanti architetti dell’epoca come Luigi Vanvitelli, che suggerì di chiudere alternativamente le campate del cortile, Ferdinando Fuga e Pompeo Schiantarelli.
In questa fase fu anche aggiunto un ulteriore piano, che si presenta in facciata sotto forma di attico aggiunto.
La fase ottocentesca corrisponde al declino economico degli Orsini, che sommersi dai debiti nel 1834 alienano il palazzo, dando il via a una lunga stagione di cospicue modifiche e trasformazioni.
Nel 1837 fu acquisito dal conte di Camaldoli, Giulio Cesare Ricciardi, che incaricò nel 1838 l’architetto Nicola d’Apuzzo di ingenti trasformazioni finalizzate a trasformare l’antica dimora gentilizia in casamento da reddito, che stravolsero non solo gli interni quanto anche la monumentale facciata, dove comparvero in basso botteghe e un ammezzato sul piano nobile, dando luogo già all’epoca a non poche critiche.
Nel clima incandescente del 1848, il palazzo – quartier generale di un gruppo di liberali antiborbonici – fu incendiato, subendo danni gravissimi.
Nel 1849 l’edificio fu espropriato per ragioni di pubblica utilità e restaurato dall’architetto Gaetano Genovese e dall’ingegnere Benedetto Lopez Suarez.
In questa fase fu completato il blocco verso la via Carrozzieri.
In questa configurazione l’edificio ospitava varie funzioni e uffici pubblici: prevalentemente le poste, con gli sportelli per il pubblico al pianterreno, l’amministrazione del bollo, un settore del Ministero delle Finanze, e l’amministrazione di Ponti e strade.
Dopo la guerra mondiale, a causa di cedimenti del piano fondale, si resero necessari ingenti lavori di consolidamento diretti da Camillo Guerra.
Negli anni Trenta inoltrati, con la costruzione nell’ambito del nuovo Rione Carità di un nuovo edificio postale, più ampio, moderno e funzionale, si aprì una riflessione sul destino di Palazzo Gravina.
Impedendo che divenisse sede della Galleria di Arte Moderna, alla fine prevalse la proposta del preside Alberto Calza Bini che lo ottenne come sede della Facoltà di Architettura.
Nata da una costola dell’Accademia di Belle Arti, ma poi resasi autonoma e infine aggregata all’Università di Napoli, la Scuola di Architettura soffriva della permanenza nel palazzo dell’Accademia, anche perché la compresenza con i corsi di Pittura, Scultura e Scenografia poteva ingenerare dubbi sui nuovi percorsi formativi, non solo artistici, ma anche umanistici e scientifici, degli allievi architetti.
Il restauro di Palazzo Gravina, diretto dallo stesso Calza Bini, fu per un verso orientato a ristabilire i valori monumentali dell’edificio cinquecentesco, evidenti soprattutto nel ripristino della facciata e della controfacciata, e per l’altro all’adeguamento alle necessità di questo specifico corso di studi, evidente nelle aule da disegno con lucernari al secondo piano.
Cresciute le esigenze della didattica di architettura, Palazzo Gravina non è più l’unica sede, ma resta la più prestigiosa.
Il suo valore culturale è accresciuto dalla presenza, al piano nobile, di due importanti biblioteche specialistiche, ricche peraltro di testi rarissimi e antichi, e di collezioni cartografiche e fotografiche: la Biblioteca centrale, intitolata a Edoardo Persico, e la Biblioteca del Dipartimento di Architettura, intitolata a Roberto Pane.
Dal volume "Passeggiando per la Federico II" (seconda edizione aggiornata) a cura di Alessandro Castagnaro - fotografie di Roberto Fellicò - FedOAPress