Complesso dei Santi Marcellino e Festo
Complesso dei Santi Marcellino e Festo
di Salvatore Di Liello
«Hoggi questa chiesa è bellissima, niente inferiore a quasivoglia altre delle altre Monache».
Le parole con cui la guida di Sarnelli del 1685 magnificava la chiesa dei Santi Marcellino e Festo sono da riferire alla compagine seicentesca dell’edificio sacro progettato da Giovan Giacomo di Conforto, tra il 1626 e il 1633, poi rimaneggiato nel Settecento da nuovi interventi, tra cui quelli di Mario Gioffredo e di Luigi Vanvitelli.
Le origini del complesso rimandano alla presenza altomedievale sulla collina di Monterone, dove sorgeva il Palazzo dei Duchi, di due monasteri femminili, intitolati uno ai Santi Marcellino e Pietro, l’altro ai Santi Festo e Desiderio, documentati fin dall’VIII secolo e richiamati in cronache di età ducale, quando in città continuavano a confluire flussi orientali lungamente radicati nella società, nell’architettura e nella religiosità di rito greco-bizantino.
Ve n’era viva memoria ancora nelle descrizioni tra XVII e XVIII secolo, come quella di Sarnelli, che nelle pagine sulla nuova chiesa dei Santi Marcellino e Festo glorificava la presenza di un’antica icona del Salvatore, indicata da fonti antiche come dono dell’imperatore Basilio II al papa Silvestro II, ma poi, secondo la tradizione, “per miracolo” rimasta a Napoli nella preesistente chiesa altomedievale.
Storie e leggende di età ducale continuavano a rievocare, ancora in età moderna, la memoria basiliana, anche quando, in osservanza dei dettami tridentini, nel sinodo diocesano del 1565, l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Antonio Carafa, sanciva l’unione dei due antichi complessi nel nuovo monastero di benedettine dedicato ai Santi Marcellino e Festo.
La nuova fabbrica occupò l’estremità della collina protesa verso il mare, in contatto con il porto e gli insediamenti costieri di formazione medievale attraverso le rampe di San Marcellino.
La chiesa fu affiancata al monastero, ma in posizione arretrata rispetto a esso, riuscendo in tale modo a conferire visibilità alla facciata dell’edificio nel denso tessuto edilizio che allora occupava lo spazio antistante.
L’interno, modellato sulla tipologia gesuitica post-tridentina, era caratterizzato da un impianto ad aula con cupola sulla tribuna e cappelle laterali adeguate alla profondità del transetto, concluso da una cupola di embrici maiolicati su disegno di di Conforto, è preceduto da una severa facciata rinascimentale che mostra rilevanti analogie con quella della chiesa di San Gregorio Armeno iniziata nel 1574 su progetto di Giovan Battista Cavagna, con il quale di Conforto ebbe frequenti collaborazioni.
Del resto, la presenza nei cantieri di entrambi i monasteri di Vincenzo della Monica, al quale la storiografia attribuisce l’architettura dei due chiostri (con ruoli ancora non del tutto precisati e senza poter escludere altre partecipazioni), ha determinato molteplici tangenze tra le vicende della ricostruzione dei due complessi.
Occorre rilevare tuttavia che la forma rettangolare e la dimensione del chiostro dei Santi Marcellino e Festo furono lungamente condizionate dall’invaso dei due preesistenti chiostri che, ancora separati da un corpo di fabbrica nella veduta di Alessandro Baratta (1629) secondo l’antico assetto, appaiono uniti nella Mappa del duca di Noja dove la presenza dei due giardini continua a rimandare alla traccia dei chiostri altomedievali.
Come a San Gregorio Armeno, anche nella chiesa dei Santi Marcellino e Festo il vestibolo aveva lo scopo di creare un filtro con lo spazio esterno, qui a contatto con la chiesa dei Santi Severino e Sossio, e mostrava – come nella chiesa di Cavagna – una severa facciata rimasta incompleta nel piano superiore e ritmata nei due registri dalla sovrapposizione di lesene tuscaniche e ioniche, separate da un fregio dorico e concluso da un timpano triangolare analogo a quello che presumibilmente concludeva la facciata della chiesa di San Gregorio Armeno.
Alle pregevoli decorazioni barocche – tra cui la straordinaria cona in marmi commessi eseguita nel 1666 da Dionisio Lazzari, il soffitto ligneo con tele di Massimo Stanzione e gli affreschi (1630-1640) con Santi e Storie della vita di San Benedetto di Belisario Corenzio nell’intradosso della cupola, nei pennacchi e negli archi delle cappelle del transetto – seguirono gli ammodernamenti settecenteschi curati da Gioffredo, suo il progetto dell’altare del cappellone di San Benedetto ornato da puttini di Giuseppe Sanmartino, e poi da Vanvitelli che, tra il 1759 e il 1768, intervenne con rivestimenti marmorei sull’impaginato seicentesco dell’interno della chiesa e ampliò il convento, aggiungendo un nuovo chiostro nel livello inferiore di quello preesistente dove, nel 1772, progettò il cosiddetto Oratorio della Scala Santa completato dopo la sua morte.
Soppresso nel 1808, il monastero, nel 1907 rientrava tra i beni dell’Università degli Studi di Napoli.
Nel 1912 nell’antico edificio fu trasferito il Museo di Geologia che, fondato nel 1860, fu separato nel 1932 da quello di Paleontologia sistemato nell’antica Stanza Grande del Capitolo, ornata da un pregevole pavimento maiolicato realizzato da Ignazio Chiaiese.
Dal volume "Passeggiando per la Federico II" (seconda edizione aggiornata) a cura di Alessandro Castagnaro - fotografie di Roberto Fellicò - FedOAPress