Un nuovo rivoluzionario tipo di fotomoltiplicatore

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Il primo fotomoltiplicatore, cioè un rivelatore di luce con amplificazione interna, fu realizzato dal gruppo RCA nel 1934 seguendo un brevetto di Joseph Slepian. In una fabbrica di New York, Harley Iams e Bernard Salzberg per primi integrarono in un involucro sotto vuoto un fotocatodo che trasformava, per effetto fotoelettrico, i fotoni della luce in una corrente di elettroni amplificata fino a un milione di volte. La possibilità di realizzare fotocatodi sensibili dall'ultravioletto all'infrarosso rendono questo tipo di fotorivelatore  particolarmente versatile in un ampia gamma di applicazioni.

E' difficle sottostimare l'importanza di questo tipo di dispositivi che non solo ha permesso di effettuare molte delle scoperte della  fisica moderna, ma trova anche applicazione in importanti settori della medicina, della biologia e della diagnostica, nonché nel monitoraggio ambientale e industriale. Nel corso di questi decenni il dispositivo ha subito molteplici miglioramenti tecnologici senza però riuscire ad innovare il principio base di funzionamento che ha sempre manifestato chiari limiti di funzionamento quali: il notevole consumo di potenza, un certo ritardo nell'amplificazione che non consente di ottenere una precisione temporale migliore di 1-2 miliardesimi di secondo; una scarsa sensibilità nel conteggio di singoli fotoni a bassissimi livelli di illuminazione.

Per superare queste limitazioni, alla fine degli anni '90, diversi gruppi nel mondo iniziarono a proporre nuove idee di fotomoltiplicatori basati su principi di funzionamento alternativi. Tentativi interessanti ma che risultarono inefficaci. Fu nel 2008 che, chi scrive, propose una nuova idea di fotomoltiplicatore, la quale sembrava avere, tutti i presupposti innovativi necessari per superare le limitazioni dei dispositivi allora esistenti. L'idea fu pubblicata sulla rivista Nuclear Instruments and Methods e immediatamente brevettata (G. Barbarino-VSiPMT photodetector, patent: PCT/IT2014/000174).

Questa idea rivoluzionava tutta la parte amplificatrice del fotorivelatore che non era più basata sulla emissione secondaria di successivi elettrodi metallici in cascata (dinodi), ma veniva sostituita con un semiconduttore a giunzione p-n a valanga opportunamente progettato per moltiplicare la corrente di elettroni fino ad oltre un milione di volte. Questa nuova configurazione migliorava in modo significativo la sensibilità del dispositivo con una piccolissima dissipazione di potenza e consentendo il conteggio dei singoli fotoni con una risoluzione temporale senza precedenti.

Negli anni seguenti, un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica Ettore Pancini, ha lavorato alla progettazione della giunzione amplificatrice ed alla realizzazione di diversi prototipi giungendo ad una accurata definizione delle specifiche costruttive. Specifiche che, grazie ad una collaborazione con l'industria giapponese Hamamatsu, hanno consentito di realizzare un primo prototipo industrializzato che, in seguito ad una serie di test, ha rivelato prestazioni che superano anche le più rosee aspettative. Oggi il nuovo fotomoltiplicatore è divenuto una realtà ed è con orgoglio che possiamo affermare che i sette anni di intenso lavoro svolto nei laboratori del Dipartimento di Fisica Ettore Pancini si hanno permesso di realizzare uno strumento che segna un cambiamento epocale nella tecnologia dei rivelatori di luce. 

Si ringraziano il Dipartimento di Fisica Ettore Pancini, la Sezione di Napoli dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e l'Agenzia Spaziale Italiana per i contributi dati alla riuscita di questa importante innovazione tecnologica.

Giancarlo Barbarino
Ordinario di Fisica
Dipartimento di Fisica Ettore Pancini


Redazione

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